Un’adesione alla vaccinazione inferiore alle attese può limitare l’efficacia dell’intera operazione anti-contagio. Tra le contromisure, si parla anche di una possibile obbligatorietà.
Lo sappiamo bene, le vaccinazioni sono partite dando la priorità innanzitutto a chi lavora nella sanità e nelle residenze per anziani (RSA), dove il Covid-19 ha fatto il maggior numero di vittime.
Ma già leggiamo dei primi provvedimenti che le Direzioni Sanitarie stanno prendendo per risolvere il problema di una bassa adesione da parte del personale.
Proprio così, allo stato attuale l’operazione di vaccinazione non convince tutti.
L’agenzia Ansa stima che il 20% dei sanitari non intenderebbe vaccinarsi, cioè in media uno su cinque (ma in alcune Regioni va detto invece l’adesione tocca punte del 90%). L’obbligo per ora non c’è, ma la raccomandazione a proteggersi è fortissima, soprattutto per coloro che lavorano nei servizi essenziali. Gli infermieri, così come i medici, sono tenuti a rispettare il Codice deontologico, che vieta comportamenti e pratiche antiscientifiche. Ma coloro che (per ora) hanno rifiutato l’iniezione non sono tutti no vax o negazionisti.
Il caso del foglietto illustrativo
La “bomba” è scoppiata in Piemonte: l’Unità di crisi per la pandemia denuncia che solo il 15% degli operatori delle RSA intende vaccinarsi.
Prevalgono paura e posizioni critiche, ma anche il fatto che la Regione ha svolto il monitoraggio prima che il foglietto illustrativo venisse tradotto in italiano. Situazione critica anche a Brescia, dove solo il 20% per cento degli operatori delle RSA ha aderito alle prime somministrazioni.
“Il primo monitoraggio negli ospedali è stato fatto prima dell’approvazione dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e senza poter leggere il bugiardino” – spiega Antonino Gentile, portavoce e segretario generale dell’Unione lavoratori sanità, oltre che infermiere all’Asl Roma 3 di Ostia – “ecco perché alcuni operatori hanno deciso di aspettare. La mancata o bassa adesione alle prime somministrazioni può essere dovuta anche a questi motivi”.
Ma la situazione nelle RSA resta comunque a rischio, basti pensare che l’assistenza è affidata agli operatori socio-sanitari e può capitare che ci sia anche un solo infermiere per più di cento ospiti.
E se non si è vaccinati?
Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri (Fnopi) denuncia di aver chiesto più volte al ministro della Salute di rivedere la qualità degli organici e anche i criteri di accreditamento delle RSA private, ma per ora non ci sono state risposte concrete. E aggiunge che la scelta di non vaccinarsi può essere dovuta anche ad altri ragionamenti. Per esempio, una piccola ma sostanziale percentuale di infermieri soffre di patologie croniche, malattie rare o allergie, e questi si starebbero confrontando con degli specialisti per capire quale dei vaccini già disponibili o in arrivo sia più adatto alla loro condizione di salute.
Intanto, nel Lazio, l’Ordine dei medici di Roma ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di 13 medici no vax.
E quindi, che fare?
Certo c’è lavoro e lavoro, in certi ambienti possono bastare i tradizionali Dpi e il rispetto dei protocolli di sicurezza, ma nelle strutture sanitarie, il vaccino non è fondamentale?
Qual è il confine tra la libertà individuale e il rischio per la salute altrui?
Si delinea a questo punto una situazione davvero complicata, in cui ogni datore di lavoro potrebbe interpretare/applicare la norma secondo le proprie valutazioni, aprendo così a innumerevoli contenziosi. Chi rifiuta il vaccino, potrebbe cambiare mansione, o essere collocato obbligatoriamente in smart working (se possibile), o in aspettativa non retribuita se non si trovano altre soluzioni organizzative, potrebbe incorrere a sanzioni disciplinari e in ultimo al licenziamento. Considerando però che i dipendenti pubblici sono circa 3 milioni e quelli del settore privato quasi 16 milioni, è chiaro che si aprirebbe il caos.
Serve una decisione politica.
Al governo sono allo studio diverse ipotesi qualora l’adesione alla vaccinazione sia inferiore alle attese. Molti esponenti del governo, del Consiglio superiore di sanità, del Comitato tecnico scientifico si sono già dichiarati per l’obbligatorietà del vaccino per tutto il settore pubblico.
Altri hanno parlato di “obbligo deontologico” quindi, non impositivo ma connaturato alla professione medico-sanitaria. Secondo altri pareri di esperti, la Costituzione all’articolo 32 prevede un bilanciamento fra il diritto alla salute individuale e la tutela della salute pubblica, quindi l’obbligo vaccinale potrebbe essere imposto da una legge (o un decreto legge se c’è l’urgenza), qualora sia comprovata l’esigenza di far prevalere l’interesse pubblico per ridurre il contagio.
Il presidente Conte ha al momento escluso l’obbligo generalizzato, ma al contempo ha fatto capire che si analizzano varie ipotesi.
La prima è una specie di “patente di immunità” per rilanciare i viaggi aerei, il turismo, lo sport, gli spettacoli. Questo patentino attesterebbe l’avvenuta vaccinazione della persona e consentirebbe a chi lo detiene di tornare a frequentare palestre, teatri, cinema, o anche di viaggiare.
La seconda consisterebbe nell’obbligatorietà per i dipendenti pubblici, almeno per le categorie più esposte al rischio (personale sanitario e scolastico).
La terza punta alla formazione a distanza, che coinvolgerebbe il personale dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) e si focalizzerebbe sugli operatori sanitari: una formazione sulle caratteristiche del vaccino e sulle informazioni da “veicolare” alle persone.
L’ultima invece riguarda le modalità e gli strumenti per le aziende del settore privato per “convincere” i dipendenti a vaccinarsi.
Tanti gli scenari possibili, ma ancora nulla di certo. Staremo a vedere.