Tra dimissioni, pensionamenti e fine contratto, negli ultimi tre anni, sono 21mila i medici che hanno abbandonato gli ospedali. Per evitare il disastro occorre stabilizzare il precariato e cambiare la formazione post-laurea.
Sapete cosa si intende con l’espressione “Great Resignation”? Che un grande numero di persone, in vari ambiti lavorativi, lascia il suo impiego. E anche i medici non ne sono immuni, anzi.
Le cause di questa grande fuga dei camici bianchi dagli ospedali pubblici sono le più svariate: dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il proprio benessere. Complice di questo meccanismo, la pandemia, che ha peggiorato le condizioni di lavoro del personale sanitario.
I dati del 2020 e del 2021, confermano il persistere di una quota importante di licenziamenti che si aggiungono alle uscite per pensionamento. Uscite che hanno toccato il livello più alto nel 2019.
Ma vediamo nel dettaglio.
Anno 2020
Nel 2020, a meno che il nuovo lavoro non fosse già pianificato da tempo, i medici dipendenti hanno rallentato i licenziamenti per non abbandonare i colleghi proprio durante la peggiore crisi sanitaria dell’ultimo secolo.
Nelle ondate pandemiche successive alla prima, i medici hanno lavorato sempre nella stessa approssimazione e improvvisazione organizzativa della primavera 2020. Letti e professionisti spostati e riconvertiti a seconda delle necessità, senza alcuna condivisione delle decisioni.
Alla gestione dei malati Covid-19, per i medici ospedalieri si è aggiunto il carico della campagna vaccinale e del recupero di lunghissime liste d’attesa, causate dal rallentamento delle attività ordinarie per far fronte alla pandemia. Il tutto, con la aggiunta dell’enorme carico emotivo legato all’alto numero di contagi e alle morti per coronavirus tra gli stessi operatori sanitari, in un contesto che già lamentava pesanti carenze di organico.
Anno 2021
Nel 2021 riprende la grande fuga, con il 39% in più rispetto al 2020 che decide di lasciare la dipendenza dal SSN e proseguire la propria attività professionale altrove.
Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di licenziarsi è stata del 2,9%, percentuale abbondantemente superata dalla Calabria, 3.8%, e dalla Sicilia, 5.18%. La Lombardia, che era già oltre la media italiana nel 2020, aumenta ancora i suoi dimessi del 43%. La Liguria in un anno triplica i medici che si dimettono, la Puglia passa dal 2.04% al 3.29 %.
Una fuga senza precedenti, da regioni con storie, organizzazioni e realtà sanitarie completamente diverse. Ma unite da un comune sentire: i medici non vogliono più lavorare in ospedale e se ne vanno.
Ma perché questa fuga?
I medici se ne vanno perché cercano orari più flessibili, maggiore autonomia professionale, minore burocrazia. Cercano un sistema che valorizzi le loro competenze, un lavoro che permetta di dedicare più tempo ai pazienti e poter avere a disposizione più tempo anche per la propria vita privata, senza sacrificare la famiglia. Raramente la motivazione principale è la maggiore remunerazione. Del resto, le remunerazioni, anche a causa del blocco contrattuale ultradecennale, sono oramai ridotte a circa il 50% di quelle che offrono i paesi dell’ovest europeo.
Anche a causa del blocco del turnover, i turni di servizio sono aumentati, con weekend quasi tutti occupati da guardie e reperibilità. Il lavoro non solo è diventato sempre più gravoso ma gli operatori sanitari sono costretti quotidianamente ad affrontare rischi crescenti legati ad aggressioni e denunce.
Le dimissioni volontarie in questo contesto assumono il significato di un tentativo di sottrarsi ad un lavoro usurante e poco gratificante, caratterizzato da scarsi riconoscimenti e da un carico, anche emotivo, troppo elevato.
Verso il privato
Quindi, in questo scenario, il privato diventa sempre più attrattivo. Soprattutto, il lavoro nel privato è considerato meno stressante. Il cambiamento culturale e sociologico è così forte che sempre di più i neo laureati ambiscono a specializzazioni spendibili sul mercato privato (cardiologia, dermatologia, pediatria, oculistica, chirurgia plastica, ecc.), allontanandosi da quelle considerate più gravose e rischiose (Medicina di Emergenza/Urgenza, Chirurgia Generale, ecc.) che non riescono più a saturare i contratti di formazione disponibili annualmente.
Conclusioni
Per evitare il “disastro” occorre anticipare l’incontro tra il mondo della formazione e quello del lavoro, consentendo ai giovani medici specializzandi di raggiungere il massimo della tutela previdenziale e al sistema sanitario di utilizzare le energie più fresche per far fronte a una importante carenza che si prolungherà per almeno tre anni.
La soluzione consiste nel trasformare l’attuale contratto di formazione in un contratto a tempo determinato di formazione e nel conseguente inserimento dei giovani medici nella rete ospedaliera regionale, per garantire il futuro dei giovani medici e quello dei sistemi sanitari.